MERCOLEDÌ, 28 LUGLIO 2010

 

 

Pagina 29 - Cultura e Spettacoli

 

Pesta affila le armi: «La gestione è mia fino al 2011»

 

 

 

 

IGOR CIPOLLINA


 

Farsi da parte? Carlo Pesta non ci pensa proprio, è deciso a gestire il Sociale fino alla scadenza del contratto con i palchettisti. O almeno «finché non metteranno mano al portafogli per darmi i soldi che mi devono». Il “metteranno” è riferito al direttivo del teatro, i “debiti” ad anticipazioni di cassa e servizi vari. Dice il presidente della Fondazione Arteatro. Intanto la stagione lirica sembra evaporata al sole di luglio e il futuro del teatro accende il dibattito.
 È stizzito Pesta. Ce l’ha sempre e ancora con Guido Benedini: «Agisce come se fosse da solo, ma fino al 2011 la gestione del Sociale è mia». L’ultimo “sgarbo” risale alla stretta di mano del presidente dei palchettisti con il sindaco Nicola Sodano (la scorsa settimana) e all’ipotesi di un’associazione pubblico-privata per ridare slancio al teatro. Come se Pesta fosse già uscito di scena, appunto. A proposito, la lettera datata 31 maggio 2010 con la quale la Fondazione Arteatro formalizzava sgombero e disdetta delle utenze? «Era successiva a un incontro con il direttivo nel quale si era pattuito di risolvere tutto in modo amichevole e ripartire dalla lirica - ripete Pesta -. E poi Benedini ha respinto quella lettera, appellandosi all’articolo 13 del contratto». Quello che impone un anno di preavviso. Così la Fondazione Arteatro ha desistito, attenendosi scrupolosamente alle carte. Questa la versione di Arteatro, impossibile raccogliere la replica di Benedini (ieri il cellulare squillava a vuoto). Quanto alla lirica, l’accordo scritto prevede che a organizzare il cartellone sia Pesta ma per conto del Sociale, al quale resta la titolarità delle opere e del contributo statale. Il progetto per il 2010 era stato depositato al ministero lo scorso autunno, secondo i termini previsti. Ma è rimasto lettera morta: incalzato dai coproduttori delle opere, Pesta aveva sollecitato il sì definitivo del Sociale entro il 10 luglio.
 Fin qui la polemica alla luce del sole, oltre c’è un vespaio di avvocati, querele, minacce di messa in mora, lettere e controlettere dov’è bene non mettere il naso. Meglio dar conto del dibattito sul futuro del teatro, una discussione talmente slabbrata e riccorente da mordere la coda al passato. Un disco rotto che ad ogni giro si arricchisce però di nuove tracce. La tristezza di Paolo Ghidoni di fronte al presente del Sociale è così profonda da suonare «quasi biblica». Il violinista sposa la missione di «restituire il teatro ai mantovani» e propone la sua ricetta in due parole: orchestra e coro. Stabili. «Creerebbero affezione, vicinanza con il pubblico mantovano, altrimenti difficile da rimettere insieme - argomenta Ghidoni -. E poi lo scopo sarebbe duplice, perché l’orchestra e il coro offrirebbero anche un orizzonte, una prospettiva ai nostri musicisti costretti altrimenti a lasciare Mantova». Il violinista è convinto della bontà della sua idea, che avrebbe suscitato l’interesse della nuova amministrazione. «Serve progettualità - insiste Ghidoni -, non è sufficiente ristrutturare i muri, occorre rifondare la visione complessiva. Il Sociale è uno dei teatri più antichi e il suo palcoscenico è secondo soltanto a quello della Scala».
 Il direttore del Campiani (in scadenza) Giordano Fermi è meno ottimista. «La situazione attuale è il risultato di anni e anni di inconsistenza - osserva -, l’obiettivo non può essere soltanto quello di fare la stagione. Altrove e intorno a noi ci sono teatri stabilizzati già da tempo, si tratta di un processo lento. Pensare oggi di fare del Sociale un teatro stabile è un’utopia». Il maestro Fermi traccia una geografia larga (ma non troppo) che tiene insieme Milano, Bergamo, Cremona, Bologna, Reggio Emilia, Parma, Verona. Che fare, quindi, a Mantova? «Tenersi stretto il titolo di teatro di tradizione, tentando di rabberciare le cose con accordi, idee, l’unione delle forze. Ma potrebbe non bastare, il problema investe la sensibilità del pubblico. Manca una cultura di base, uno scoglio anche per la gestione più sensata e oculata. La verità è che oggi mettere in piedi un teatro è angosciante».
 Lapidario il basso buffo Enzo Dara: «Il teatro deve essere restaurato, reso bello e sfavillante. Tutto il resto non conta, è solo chiacchiera».